Per un amante di lunga data degli zombie, il primo State of Decay ha rappresentato la definitiva realizzazione di un piccolo sogno, l’attesissima messa in commercio di un prodotto finalmente capace di fondere armoniosamente istanze action, derivate ed opportunamente declinate dalla lunga tradizione di titoli in terza persona, con meccaniche prettamente gestionali. Non si trattava solo di combattere, raggiungere una destinazione, recuperare armi che rendessero possibile ed efficiente la progressiva disinfestazione di un’ambientazione dalle ragguardevoli dimensioni. Il focus, al contrario, era proiettato sul mantenimento di una piccola comunità che andava sfamata, protetta, incoraggiata.

Non c’erano solo missioni, insomma, ma anche semplici escursioni che avevano come obiettivo il reperimento di risorse e cibo, quando non la fondazione di un nuovo avamposto, utile al gruppo per ampliare le zone sgombre dalla presenza di infetti. Questo sequel, baluardo della controversa softeca di